Cybercrime – Spiare il Partner ai tempi dei Social Network: cosa si rischia

SPIARE IL PROPRIO PARTNER AI TEMPI DEI SOCIAL NETWORK

In collaborazione con Avv. Testa

 

Cybercrime – Spiare il Partner ai tempi dei Social Network, ICCOM

 

ECCO COSA SI RISCHIA:  VIOLAZIONE DELLA PRIVACY, ACCESSO ABUSIVO AL SISTEMA INFORMATICO, RAPINA

Una lettrice mi scrive: “Gentile Avvocato, sto attraversano un periodo di profonda crisi con il mio compagno con il quale convivo da circa tre anni. Ho il timore che mi stia spiando, convinto che abbia una relazione con un altro uomo. Pochi giorni fa l’ho sorpreso con il mio cellulare in mano.

Come posso difendermi?”

 

Cara lettrice, il mondo dei sentimenti spesso gioca brutti scherzi ed ecco che quando ingenuamente ci accingiamo a tentare di “scoprire qualcosa di più” della nostra dolce metà, si può inconsapevolmente incorrere in violazioni punite sul fronte civile e penale.

Spiare le conversazioni di un partner, di un dipendente o di qualunque altra persona – in assenza di consenso – è reato.

Occorre evidenziare sin da subito che quanto previsto dalla legge si estende ad ogni tipologia di comunicazione, non solo e-mail e sms, ma anche accesso al profilo Facebook o su Whatsapp, o ad ogni altro programma di messaggistica o social network.

Quali sono quindi i rischi in cui incorre un partner eccessivamente geloso e curioso?

Nel tentativo di fornire una risposta esauriente al quesito sottoposto, verrò qui di seguito a riassumere brevemente le conseguenze che possano derivare da tale violazione e ad illustrare quanto cara possa costare detta curiosità, mediante il ricorso ad una descrizione dei rimedi apprestati dall’ordinamento nei confronti di chi – a torto o a ragione – ponga in essere condotte in violazione della normativa dettata in materia di privacy.

L’atteggiamento invadente di chi si accinge a leggere mail, sms e chat, non solo configura una condotta moralmente scorretta, bensì una vera e propria ipotesi di reato, sanzionata e severamente punita.

In primo luogo, colui il quale ponga in essere condotte del genere, incorre nella violazione della normativa dettata in materia di privacy. A tal proposito, l’art. 15 della Costituzione sancisce il diritto alla segretezza della corrispondenza : “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria ”.

Ulteriore referente normativo, con previsione di conseguenze civilistiche, si rinviene nel Codice della Privacy.

L’art. 4 lettera b) del Dlgs 196/2003 fornisce una definizione di dato personale nei seguenti termini : “qualunque informazione relativa ad una persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, compreso un numero di identificazione personale”.

A tal proposito, è bene precisare che sono sempre personali i dati che riguardano la famiglia, il lavoro e le attività economiche, commerciali o assicurative.

Si incorre in violazione della privacy quando si fa un trattamento illecito dei dati personali, si notifica il falso al Garante per la privacy, non vengono adottate le necessarie misure di sicurezza a tutela della privacy oppure i provvedimenti dettati dal Garante vengono disattesi.

Nello specifico, per trattamento illecito dei dati personali si intende ogni azione commessa in violazione alle disposizioni del Codice per la privacy al fine di trarre per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno. La pena prevista in questo caso è la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Come si avrà modo di vedere, l’afflittività della pena, rende l’idea di quanta attenzione il Legislatore presti ad un tema delicato come quello della privacy.

Quali quindi le conseguenze?

Il partner che si trovi vittima di un illecito trattamento dei propri dati personali, sarà, in prima istanza, legittimato a richiedere e ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla violazione della normativa sulla privacy.

Ma come si avrà modo di vedere a breve, l’ordinamento appresta alla privacy una tutela graduale crescente.

Oltre alla generica violazione della privacy, chi si appropria del cellulare (ad esempio per entrare nel profilo Facebook del partner) o del computer altrui per spiarne le conversazioni, commette il reato di accesso abusivo a sistema informatico ex articolo 615 del Codice Penale.

La norma recita: “Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni.”

La giurisprudenza di legittimità (Cass. V pen. n. 34141/2019) si è occupata del tema, in relazione all’accesso alla chat del partner.

In particolare, i Giudici della Suprema Corte si sono pronunciati sulla vicenda di un accesso abusivo al profilo Skype della moglie e violazione di corrispondenza.

L’uomo era alla ricerca di prove del tradimento, e il fatto che il profilo fosse già aperto sul computer presente in luogo comune della casa non è stata motivazione sufficiente a far decadere i Giudici dalla volontà di configurare il reato.

Infatti, la norma punisce, non solamente la condotta di chi si introduce nel sistema informatico o telematico, quanto anche chi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Inoltre, aggiungono i Giudici della Suprema Corte, anche se la password era salvata al momento dell’accesso abusivo, il sistema informatico era comunque munito di misure di sicurezza.

Nei primi due gradi di giudizio l’uomo viene assolto, ma l’angolo prospettico muta di fronte alla Suprema Corte di Cassazione.

L’uomo, infatti, mediante tale “abusivo” accesso si era precostituito prove preziose da poter utilizzare nell’ambito del giudizio di separazione.

In Cassazione, la vicenda viene interpretata in maniera differente: i Giudici, in sede di legittimità, accolgono la posizione della donna. L’ex moglie, infatti, indicava l’erronea applicazione dell’art. 615-ter c.p., trattandosi di norma che punisce, non solamente l’accesso abusivo ad un sistema informatico, ma anche il mantenimento nello stesso contro la volontà del titolare.

Rileva infatti unicamente il comportamento dell’uomo, trattenutosi all’interno del sistema protetto da misure di sicurezza, navigando nel profilo Skype della ricorrente, leggendo e stampando le pagine con le conversazioni, pur non essendo autorizzato a farlo e, anzi, nella piena consapevolezza della contrarietà della moglie.

Si comprendono, allora, le insidie che si celano dietro all’irrefrenabile desiderio di “ficcare il naso” negli affari della nostra dolce metà: a seguire l’istinto di voler sapere, si rischia una condanna in sede penale.

La Corte, probabilmente, al fine di mitigare la rigidità e le conseguenze che sarebbero potute scaturire da un dictat tanto severo, rinviene nella “giusta causa” l’elemento moderatore idoneo a rendere legittimo –seppur in parte- l’accesso abusivo al sistema informatico.

I Giudici di merito affermano che l’imputato non aveva deciso di divulgare le conversazioni e le foto intime e compromettenti della moglie. Si era invece limitato a produrle in sede di separazione, con la finalità di ottenere l’addebito della controparte.

Ecco allora che non rileva il fine (più o meno nobile) dell’accesso, quanto piuttosto l’utilizzo motivato e circoscritto del materiale eventualmente rinvenuto.

Il riferimento alla giusta causa, è così espresso ex art. 616 c.p: “Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa da trenta euro a cinquecentosedici euro. Se il colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, se dal fatto deriva nocumento ed il fatto medesimo non costituisce un più grave reato, con la reclusione fino a tre anni”.

In breve, la Cassazione rinvia al Giudice di Appello, chiedendo che ai fini della valutazione in merito alla responsabilità penale del marito, si indagasse lo scopo intimo perseguito da quest’ultimo.

La vicenda giudiziaria poc’anzi riportata consente di concludere con il seguente monito: se aveste in animo di accedere abusivamente ai sistemi informatici del vostro partner, sarà meglio che vi siate precostituiti una causa più che valida, altrimenti il rischio di incorrere in una condanna in sede penale è più che concreto.

Ma le accuse rischiano di diventare ancora più pesanti e la possibilità di difendersi si riduce, tanto da poter essere considerata prossima allo zero, allorquando la sottrazione del telefono cellulare o di altro dispositivo informatico avvenga dietro minaccia o violenza: in tal caso, si tratterà di rapina.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 2429 del 10 giugno 2016, con la quale venne confermata la condanna a 1 anno e 8 mesi di reclusione ad un uomo che aveva spiato le conversazioni della moglie dopo avergli sottratto con violenza il cellulare.

Detto altrimenti, se si sostituiscono inganno ed astuzia con violenza, allorquando il dispositivo venga letteralmente strappato di mano, a ritenersi configurata sarà la fattispecie di rapina.

Il più celebre dei reati contro il patrimonio, che sin dagli albori ha sempre visto come protagonisti malintenzionati individui soliti indossare un passamontagna, ora apre i propri orizzonti ai fidanzati gelosi che, accecati da tale sentimento, arrivino al punto tale di strappare di mano il cellulare al proprio partner.

Se la pretesa di aver accesso al cellulare avviene con l’uso della forza –specie quando l’altra persona lo tenga ben stretto a sé- ci si troverà di fronte al rischio di vedersi indagati per il delitto di rapina; diversamente, se la violenza avviene solo sulla cosa e solo indirettamente sulla persona, potrebbe scattare, invece, il cosidetto scippo (meglio conosciuto come “furto con strappo”).

 

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